Edvard Munch con l’opera l’Urlo ci invia dal passato un’email pittorica, dandoci le istruzioni sul dolore immenso, insostenibile, su cosa si provi nel perdere qualcuno amato, una madre o un padre per un figlio, o un figlio per un genitore.
L’urlo è un autoritratto, uno struggente specchio del dolore, uno sentire che ha il sapore dell’infinito, dell’incompreso, dell’inaccettabile, “dell’oltre noi”.
Una dimensione che ha del quantistico, perché viaggia fuori dalle regole del tempo e dello spazio, delle ossa del cuoio o della ragione da noi conosciuti, e diventa un Apartheid sentimentale.
Quel qualcosa di unico che si impossessa di una parte di noi, donandoci una nuova razza di dolore quel “Mai più” ti rivedrò, ti ascolterò, ti parlerò, che diventa uno Squatter.
Un occupante silente me stordente di ogni nostro singolo respiro quotidiano.
Un urlo strapiombo di profondo, così potente da vibrare dentro a squarcia-cuore, provenendo proprio dal quel silenzio di chi, lasciandoci per sempre, ci lascia ammutoliti inermi impotenti con l’unico ricordo indelebile, che è anche quel folle desiderio impagabile di poter ascoltare anche solo almeno una volta ancora il suono della sua voce.